Un’anno fa cominciava l’avventura di Orme. Non era mia intenzione abbandonarla dopo soli pochi mesi, né la mia disattenzione è scaturita da una perdita d’interesse per il soggetto, piuttosto dal frastuono della vita.
Un luogo intimo, un viaggio collettivo teso a ripercorrere le orme della femmilità richiede un silenzio che spesso la maternità nega. È un dualismo che ci sprona ad ascoltare tutti fuorché noi stesse, fino al punto di una rottura. Suppongo che fosse stato proprio quel grido a spingermi a rovistare nei cassetti della mia esistenza e di quella delle donne che mi hanno preceduta; a circondarmi di dagherrotipi; ad ascoltare storie antiche e recenti; a vivere sospiri altrui come fossero i miei.
Era la necessità di un luogo eletto, una stanza dell’anima dalle pareti immacolate, da rivestire mano a mano d’immagini e di volti di donne; e di tutte le storie che implorano di essere raccontate.
È una stanza che esiste ancora da qualche parte, in quel regno infinito delle possibilità che la vita ci dà, o che forse ci prendiamo con un colpo di testa o di mano; un atto di coraggio o di egoismo.
Esiste senza fretta o imposizioni. Senza pressioni. Senza tempo o scadenze.
Esiste perché necessaria, così come lo è il silenzio. Così che in seguito possano scaturire parole.