E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana. E come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sole, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia?
Questo passo di Sibilla Aleramo, tratto da “Una donna”, contiene una delle più intense riflessioni sulle responsabilità della donna verso il mantenimento del patriarcato, inteso come ‘male sociale’. È tanto un atto di accusa quanto di difesa, incentrato sul concetto che per cambiare una cultura radicata occorre una ‘buona madre’, una che però non sia solo una ‘creatura di sacrificio’ ma ‘una donna, una persona umana’.
L’accusa è contro quelle donne che rifugiandosi in una maternità sacrificale si pongono da esempio e offrono ai figli un’immagine indelebile che permane come un assunto attraverso le generazioni: il perno della cultura patriarcale. È nell’analisi delle cause che il discorso della Aleramo ci tocca da vicino: come può una donna sfuggire alla gabbia delle convenzioni se è cresciuta attraverso l’esempio materno, se è stata educata all’inferiorità, se non è accolta come eguale, se è – in sostanza – ella stessa il frutto di quella cultura?
Al giorno d’oggi il patriarcato non sussiste più come sfrozo esplicito dell’uomo nel dominare la donna e pertanto è più difficile da identificare. Si muove piuttosto come sistema nel quale ogni donna nasce e vi si rende partecipe inconsciamente. Godiamo di una libertà altamente condizionata non solo da influenze esterne ma dalla nostra psiche, quella che ha acquistato una certa forma mentis nella prima infanzia e con la quale ci troviamo costantemente a dover fare i conti. Per chi come me è cresciuta a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, il dominio maschile e la sottomissione della madre all’interno della famiglia erano ancora fatti concreti e tangibili. Esisteva la concezione radicata che il futuro apparteneva ai figli maschi e il loro successo era più importante di quello delle femmine, che comunque si sarebbero sposate e ‘poi ci avrebbe pensato il marito’.
Ricordo, fin da bambina, un grande senso di ribellione a quel concetto, ma era così forte e radicato da divenire una gabbia esistenziale, come una camicia di forza che si cerca di strapparsi di dosso. Per mio padre, cresciuto in una famiglia originaria della Basilicata fortemente patriarcale ed educato nelle scuole littorie, la predominanza maschile era un fatto assodato, e per mia madre non era diverso.
Ma in una famiglia patriarcale paradossalmente le maggiori fautrici della discriminazione sono spesso proprio le madri. Può avvenire per un adeguamento al contesto o per sottomissione, oppure al contrario, seguendo un bisogno di autoaffermazione. Soprattutto per le donne fino alla generazione di mia madre, la presenza di un figlio maschio rappresentava uno sbocco e una possibilità. Un figlio maschio avrebbe occupato un luogo privilegiato nella società. Gli sarebbero state concesse libertà e opportunità a lei negate. Ogni genitore sa bene che l’ostacolo più grande da superare nell’educazione dei figli è quello di non cedere al tranello del vederli come proiezione di se stessi.
Anche oggi evitare quel tranello è difficile, ma in passato quando la genitorialità era vissuta istintivamente e non vi era alcuna riflessione sull’approccio, dipendeva tutto dalle personalità individuali e dall’educazione ricevuta. Così i padri desideravano che i figli seguissero le proprie orme, mentre le madri sognavano che facessero tutto quello che a loro invece era stato negato. Le figlie femmine non offrivano sbocchi, erano un binario morto, là dove invece i figli maschi avrebbero potuto concretizzare ciascuno dei loro sogni. Erano la materializzazione di quel “se solo fossi un uomo” da sempre proclamato: un figlio maschio consentiva loro di esserlo.
A livello di sviluppo della personalità, la trasposizione delle madri nei confronti dei figli maschi era un carburante infuso negli uni a detrimento delle altre, che instillava certezze nei primi e insicurezze nelle seconde. Ad esso andava associata l’immagine di madri perennemente insoddisfatte, sottomesse e infelici, cariche di rimpianti e votate al martirio della maternità. La parità sociale allora, che in quegli anni si faceva sempre più spazio nella legislatura, era un fatto vacuo, in quanto nelle famiglie patriarcali, soprattutto là dove erano presenti figli maschi, il punto di partenza era iniquo.
Non si tratta di un passato morto e sepolto, ma di uno ancora vivo in noi. Siamo donne emancipate, frutto spesso d’iniquità che ci hanno segnate, ed è un fatto di cui è importante tenere conto nella valutazione di come questo possa avere influito sul ruolo che poi abbiamo assunto come donne, mogli e madri.
La ricerca di una identità femminile è dunque tanto importante quanto quella del modello educativo. Si tratta di una liberazione consapevole di ciascun retaggio che ha formato la nostra generazione. Solo così si potranno muovere passi ultetriori in quella successiva.
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