I romanzi sono lettere che ci scriviamo dal passato.
Ho cercato spesso di razionalizzare questo aspetto della scrittura, ma ogni ragionamento comporta argomenti di cui non ne so abbastanza e che poco aggiungono a una consapevolezza percettiva.
Permane una curiosità che si nutre del fascino insondabile dell’energia creativa. Da dove viene e perché? E soprattutto, cosa intende comunicarci?
Innanzitutto l’energia creativa non è mai un flusso continuo: arriva con ondate imponenti, poi si ritira. C’è calma nella piatta che segue, ma è raramente pace, piuttosto desolazione, impazienza e l’eterno anelito al tumulto degli tsunami creativi.
Indubbiamente esistono, all’interno di ciascuno di noi, degli elementi scatenanti. Forse esistono dei patterns, e se riuscissimo a individuarli allora saremmo in grado di assumere il controllo della nostra creatività. Perché in fondo di questo si tratta, di controllo. L’assenza di esso ci fa sentire impotenti e smarriti.
La creatività però non ha padroni, meno che meno il nostro io razionale. Con quello, ce la caviamo abbastanza bene, perché parliamo la stessa lingua: utilizziamo il linguaggio. Ci capiamo. Ma la creatività appartiene a una sfera apparentemente indecifrabile. Eppure comunica e talvolta lo fa in modo così lucido e pregnante da lasciarci sbigottiti. Soprattutto quando frasi che abbiamo scritto ci raggiungono anni dopo – frasi che non comunicavano nulla alla persona che le scriveva ma che parlano a quella che rilegge.
È un aspetto di cui ero vagamente consapevole quando scrissi Thomas Jay, dove il protagonista scrive metafore della propria esistenza senza esserne cosciente. Verso la fine del romanzo lo psicologo gli fa notare che nel suo primo romanzo, Thomas Jay aveva raccontato la storia della sua vita futura. Era una riflessione su un processo creativo di cui, all’epoca, non avevo alcuna esperienza diretta o letteratura di supporto; né avevo inventato la trama di In the Dim, In the Light, ad hoc, per farla divenire rappresentazione della vita del protagonista. In sostanza non si era trattato di un’invenzione a posteriori. Malgrado ciò, da parte mia, qualunque consapevolezza vi fosse riguardo a quel processo, si fermava alla constatazione letteraria, ovvero nel rapporto tra il personaggio e la propria scrittura.
Per molti anni ho voluto pretendere che la mia creatività si muovesse su un piano parallelo a quello del mio io razionale, come fossero due universi separati e che dunque il narrato non avesse nulla a che fare con me, con la mia vita e il mio rapporto con la scrittura. Va da sé che non aveva senso. Se avevo speso mesi, anni per elaborare quel concetto era indubbiamente esistita da parte mia una necessità di catturarlo ed esprimerlo.
Oggi so che era per timore: la paura di comprendere fino in fondo che Thomas Jay era la mia metafora e di voler soffermarmi su quelle frasi disseminate lungo il romanzo, che solo vent’anni dopo mi avrebbero parlato. La persona che scriveva non era ancora in grado di ascoltarsi ma la donna di oggi può. Era esistito anche il timore della percezione altrui. Era stata dunque proprio la motivazione profonda della storia a impedirmi d’interpretarla.
Anni fa, nel corso di un seminario di sceneggiatura alla Sapienza, ci era stato chiesto di scrivere un trattamento. La storia che avevo scritto, Un gesto importante, era una rivisitazione de Lo straniero di Camus, ma nel mio racconto l’omicidio gratuito non era contro un arabo ma contro una donna, un femminicidio. Ricordo gli sguardi incuriositi e turbati dei miei amici quando terminai di leggere, come se non mi riconoscessero, come se non potevo assolutamente essere stata io ad aver scritto quella storia. Doveva esistere un’immagine che proiettavo all’esterno così distante da quanto avevo bisogno di esprimere da spiazzare completamente chiunque mi conosceva. Il relatore mi disse che la storia era potente e intensa, poi mi chiese cosa mi avesse spinta a scriverla. Non lo sapevo.
Improvvisamente quell’ignoranza mi parve una colpa, come se l’incomprensione delle mie motivazioni fosse sintomatica d’inadeguatezza ad affrontare temi “più grandi di me”, e che dunque nulla di quanto scrivevo aveva alcun valore. Probabilmente biascicai qualcosa di stupido tra risolini idioti, così quel mio io insicuro e minuscolo che interagiva col mondo mi lasciava lì spaesata, per sempre intrappolata in quell’immagine, mentre l’altro, che sapeva muoversi a suo agio nel giocare con la letteratura ed esprimere concetti attraverso delle storie, andava tenuto nascosto. Anni dopo, lo avrei chiamato Thomas Jay.
Se oggi qualcuno mi chiedesse nuovamente perché avessi scritto Un gesto importante, e perché mi era parsa così attuale e pertinente una rivisitazione di Camus sostituendo una donna all’arabo, potrei parlarne per ore. Allora non lo sapevo, eppure le motivazioni erano già tutte lì.
Possiamo pensare alla creatività come a una lingua del futuro. Si muove a una velocità più elevata del nostro io razionale che invece è rallentato dalle costrizioni del mondo materiale, dal nostro processo di maturazione e acquisizione di conoscenze. Ha bisogno di più tempo per crescere ed è sempre un passo indietro. Non c’è da sorprendersi dunque se gli autori possono essere per anni inconsapevoli del ‘perché’ hanno scritto una certa storia.