La via più difficile

Quando avevo 20 anni mi posi la questione del ricorso alla violenza. La domanda era: è lecita davanti all’ingiustizia? Per comprenderlo cominciai a lavorare a un romanzo metafora. Si trattava di un percorso interiore in cui mettevo il protagonista davanti ad una serie d’ingiustizie contro le quali si accaniva fino quasi a soccomberne.

Non era facile rispondermi. Parte di me aveva il mito del ribelle: indossavo le magliette di Che Guevara e, pur rischiando di saltare in aria ogni volta che prendevo la metro a Londra, in fondo, non riuscivo ad odiare l’IRA. A 30 anni, quando mandai il romanzo al Premio Calvino, non me l’ero ancora data: ancora in me esisteva la ribellione all’accettazione e all’impotenza. Litigavo con Dostoevskij e mi irritava il suo fare a pezzi i ribelli che pure amavo. Quale ventenne potrebbe sfuggire al fascino di un Ivan Karamazov o non comprendere appieno le ragioni di Raskolnikov? È nella natura del crescere.

Solo a 40 anni, quando poi il romanzo è stato pubblicato, ero riuscita a a far dire questa frase al protagonista:

“in questa società che pure mi ha tanto maltrattato, non ci sarà mai posto per un uomo così intriso di rancore”.

Dall’attacco terroristico di Hamas contro Israele, al bombardamento di Gaza, fino agli attacchi terroristici in Europa, emerge a mio parere un fatto degno di nota: la relativa calma della Cisgiordania, che pure – a causa delle politiche di Netanyahu – ha subito infinite ingiustizie ma è opposta ad Hamas. E se, parafrasando Andreotti, penso che se fossi nata e cresciuta protetta da una rete perché i coloni mi sputano e orinano addosso, anch’io a 20 anni sarei stata terrorista, questo non significa che avrei avuto ragione.

Oggi il mio rispetto va verso chi sceglie la via etica, quella più difficile ma più intelligente. Sono indignata dal comportamento dei ragazzi nelle università, ciechi davanti all’orrore che celebrano quando gridano “noi siamo Hamas”, ma comprendo la rabbia che provano, anche se la so generata da un abbaglio, da un errore di fondo. Per taluni si tratta di naturale tensione alla contrasto, per altri invece la molla è un senso di giustizia così elevato da riuscire insopportabile, fino a raggiungere la distorsione. Cerchiamo di ricordare che quei ragazzi sono i nostri figli: quelli che abbiamo educato alla tolleranza, all’inclusione e a stare sempre dalla parte dei deboli.

La civiltà si evolve in un processo di rinnovate consapevolezze, e dunque va nella direzione di una maggiore tolleranza e autocritica. Il paradosso è che, a lungo andare, per il modo in cui siamo stati educati e abbiamo educato i nostri figli, la civiltà occidentale è arrivata a sentirsi in colpa al punto da odiare se stessa. Si sta creando, insomma, un cortocircuito autodistruttivo di cui russi, cinesi, iraniani e mondo arabo stanno approfittando.

Non so ancora quale sia la soluzione, ma so per certo che non mi sento a mio agio né con l’intolleranza sovranista, né con l’implosione populista, e sono convinta che l’unica possibilità di sopravvivenza dell’Occidente sarà nel trovare un equilibrio tra le polarizzazioni che lo stanno dilaniando, ovvero tra chi rifiuta la criticità verso le azioni del passato e chi spinge quella criticità al rinnegare la civiltà nella sua interezza.

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