Linguaggio e pensiero – come molti Novax si sono avvicinati a Putin

Non occorre essere linguisti per comprendere la stretta relazione tra parola e pensiero. Non occorre neanche valutare se pensiamo in un certo modo perché utilizziamo un certo linguaggio o se il linguaggio è frutto del nostro modo di pensare. Lascio questo aspetto a persone più competenti di me in nel campo della filosofia del linguaggio.

Mi limito pertanto ad un’analisi da umanista su alcune espressioni ricorrenti che negli ultimi anni sono diventate il mantra degli scontenti:

“Non c’è più democrazia”

“Siamo sotto dittatura”

“Non si può più parlare”

“Esiste un pensiero unico”

Prima di analizzare queste espressioni,  mi tornano in mente le mie vacanze nel nord d’Italia negli anni ‘70/’80, quando anche persone a me vicine affettivamente non avevano remore ad usare il termine “terrone” in mia presenza, a parlare di “Roma ladrona” ed asserire una superiorità (implicita o esplicita) rispetto agli italiani del sud, me inclusa. 

All’epoca, tali espressioni erano il rutto di pancia dello scontento del nord d’Italia che imputava ogni male alla politica (e dunque “Roma”) e ad una corruzione geolocalizzata nel centro-sud.

Bossi e Lega Nord s’impossessarono di quel linguaggio territoriale e lo trasformarono in slogan politico, promuovendo espressioni fino a quel momento inaccettabili nei dibattiti politici e sui media. Ecco che espressioni razziste divennero socialmente accettabili e passarono dall’essere un fenomeno isolato ad uno di massa. Persone che non erano razziste, nell’assimilare un linguaggio denigratorio, divennero portabandiera di un razzismo che permeò la società italiana e cessò di essere percepito come immorale. Più avanti, mira di quel linguaggio deumanizzante e dispregiativo divennero gli immigrati.

Si tratta di una strategia del populismo: quella di impossessarsi del linguaggio dello scontento pubblico, farne slogan, e trasformare il rutto di pancia (che non ha bisogno di conferme e verifiche) in un programma politico basato sull’emotività piuttosto che sui fatti. Un processo che, come abbiamo visto nel caso di Bossi, conduce alla “normalizzazione” tanto dell’immorale quanto all’impossibilità di distinguere tra fatti, opinioni ed emozioni.

Con il “Vaffanculo day”, Grillo normalizzò l’insulto e il linguaggio triviale e violento come base del discorso politico. Chi cercava di riportare il dibattito entro i limiti della civiltà e dei “fatti” veniva tacciato come “politicamente corretto”. Là dove l’espressione (che di per sé dovrebbe avere un’accezione positiva) diveniva sinonimo di ipocrisia, scollegamento con le masse, intellettualismo, corruzione. Essere “politicamente corretti”, ovvero ribellarsi all’abbassamento dell’asse della comunicazione, era un far parte della “politica tradizionale” alla quale si imputava ogni male della società. Proporre “fatti” in un dibattito diventò equipollente di colluttazione con il “potere”. 

Ora che abbiamo rivisitato cosa è successo alla comunicazione in Italia negli ultimi decennii, passiamo alle espressioni che ho citato in apertura.

Vediamo le prime due:

“Non c’è più democrazia”

“Siamo sotto dittatura”

La loro diffusione ha preso un via sostanziale a seguito degli obblighi vaccinali e di greenpass che hanno provocato scontento tra coloro che non si fidavano dei vaccini (a causa della fretta con cui erano stati immessi) e ponevano dubbi tanto sulla loro efficacia quanto su di una possibile nocività. 

Il tema del mio discorso non è definire la legittimità o meno dell’obbligo vaccinale, né sminuire lo scontento, piuttosto di analizzare come si sia passati da uno scontento legittimo (giuste o sbagliate che fossero le premesse) all’interpretazione dell’obbligo vaccinale e del greenpass come una congiura ai danni della democrazia e ad una dissociazione tra chi ritenuto responsabile (Draghi), fino ad una serie di associazioni mentali che hanno spinto una vasa fetta di novax a schierarsi con Putin.

Espressioni come: “Non c’è più democrazia” e “Siamo sotto dittatura” nascono da un’interpretazione ideale della democrazia, ovvero quella di una forma di governo che antepone i diritti di tutti davanti ad ogni decisione, e che consente all’individuo una libertà di dissociazione rispetto ai provvedimenti.

Va da sé che è un’interpretazione fallace. Alla base della democrazia esiste innanzitutto il compromesso: quello che – attraverso il voto dei cittadini che eleggono i rappresentanti – spinge le forze politiche ad accordarsi ed esprimersi in parlamento attraverso voti di maggioranza. Che ci piaccia o meno, lo scontento di una parte della popolazione è implicito nell’idea di democrazia. È la democrazia. Così come democratica è l’accettazione da parte dell’individuo delle decisioni prese dalla maggioranza parlamentare.

Possiamo tutti essere d’accordo che una legislatura in cui si sono alternati tre governi ed un pastrocchio inimmaginabile di coalizioni sia un esempio di democrazia fallace. Ma per quanto malconcia, resta comunque una democrazia (fino a prova contraria siamo ancora nel limite dei 5 anni di legislatura). Possiamo anche dibattere sul come si sia arrivati a tale aberrazione e parlare di nuove leggi elettorali; possiamo essere scontenti con le decisioni del governo e valutare come esprimeremo il nostro scotento attraverso il voto alle prossime elezioni, ma dire  “Non c’è più democrazia” e “Siamo sotto dittatura” sono affermazioni che non hanno riscontro nella realtà. Sono frasi “di pancia” non valutazioni razionali.

Non essere d’accordo con le decisioni del governo e affermare che poiché non si è d’accordo, non si è più in democrazia è politicamente e moralmente sbagliato, inoltre è anche pericoloso. Perché? Nel momento in cui attraverso un linguaggio di “pancia” trasformiamo la realtà, non sappiamo più coglierla razionalmente ma tendiamo a percepirla solo emotivamente. Allora se in Italia “Non c’è più democrazia” e “Siamo sotto dittatura”, la dittatura (quella vera, di Putin) non viene più percepita come un male; non ne vengono più colte le differenze, piuttosto si procede con un’equiparazione che conduce paradossalmente a vedere quel regime come più democratico del nostro semplicemente sulla base di un “nemico comune” (Draghi e per associazione Biden, Zelensky, l’America, la Nato, la UE ecc.). In conlusione, si passa dal dire “Non c’è più democrazia” e “Siamo sotto dittatura” a favoreggiare una dittatura fino ad ambire ad essa.

Passiamo adesso agli altri due mantra:

“Non si può più parlare”

“Esiste un pensiero unico”

Se qualcuno dice “Non si può più parlare”, chiaramente sta parlando e dunque smentisce con la sola enunciazione il suo assunto. Non solo, sta anche esprimendo un pensiero “contro”, e dunque smentisce anche la seconda enunciazione. Sta parlando ed ha un pensiero diverso.

Quando tale paradosso viene fatto notare, si ottiene in risposta un altro mantra: “Appena si esprime un pensiero diverso si viene attaccati”.

Cosa significa?

Significa che l’enunciatore è scontento del fatto che chi la pensa diversamente possa obiettare al suo pensiero e contrapporlo. Di conseguenza (coscientemente o meno) auspica una realtà in cui non vi sarà più obiezione al proprio pensiero. In poche parole, ambisce ad un pensiero unico purché sia corrispondente al suo.

“Non si può più parlare” ed “Esiste un pensiero unico” sono semi di totalitarismo piantati nel terreno del linguaggio: accusare l’altro di essere anti-democratico perché ha un’opinione diversa pone le basi per l’accettazione di una vera dittatura, quella cioè in cui sarà ammesso un unico pensiero. Il “pensiero diverso” è quello che si vorrebbe come unico.

In conclusione, stiamo assistendo ad un processo linguistico in cui l’uso di “pancia” della parola sta muovendo coloro che la usano da una realtà immaginata ad una auspicata, che poi altri non è che la materializzazione di quanto si crede di combattere.